LA VOCE DEI FATTI
Dieci anni sono passati da quel tragico 29 giugno e non sembra vero: troppo pochi per lasciarsi alle spalle il dolore, sempre che questo sia mai possibile; non abbastanza, evidentemente, perché la giustizia italiana riesca a completare il suo corso. Come affrontare questo anniversario, come far sì che non si esaurisca solo in commemorazioni e dichiarazioni di circostanza?
In primo luogo certamente ricordando le 32vittime, una a una. Con la convinzione cheniente potrà risanare la ferita inferta alle famigliecoinvolte, a una città e a una intera regione. Non ci sarà mai pieno conforto e piena riparazione. Ma in secondo luogo con la consapevolezza che anche da questa spaventosa tragedia Viareggio e la Toscana hanno saputo risollevarsi, facendo quello che era possibile fare, con dignità e coerenza. Penso al modo con cui abbiamo combattuto una battaglia di giustizia, con la stessa Regione che si è costituita parte civile e non ha accettato ipotesi di conciliazione, perché non si trattava di chiudere una vicenda giudiziaria monetizzando un risarcimento, ma di accertare la verità e individuare le responsabilità.
E penso anche a quanto abbiamo domandato e a volte ottenuto sul tema, in Italia sempre trascurato, dei rischi e della prevenzione. Peraggiornare le normative, per far sì che le ragioni– meglio dire le pretese – del business passino finalmente in secondo piano quando di mezzo ci sono questioni di sicurezza.
Dopo quell’esplosione nel cuore della notte, alla stazione di Viareggio, queste questioni sono state sollevate, affinché almeno si potesse ridurre la velocità dei treni merci nei centri abitati. Troppo tardi e troppo poco perché a livello europeo una soluzione davvero efficace non è stata ancora individuata.
Molto ovviamente resta da fare, troppi sono ancora i mezzi inadeguati e non controllati. Ed è per questo che, oltre al dovere della memoria, sentiamo che è importante restituire voce ai fatti di 10 anni fa e alla nostra battaglia per la giustizia. Perché certe parole – che possa non succedere mai più – non siano solo una frase fatta.
UN CERCHIO CHE NON SI CHIUDE
di Fabrizio Brancoli
Gli ombrelloni chiusi. Non so perché ma questa è una delle prime immagini che conservo di quei giorni strazianti a Viareggio. La scena surreale di una spiaggia devitalizzata, proprio a luglio. Un mare senza schiamazzi, senza sorrisi. Il segno che era accaduto qualcosa di immane e inaccettabile. L’estate del 2009. Chiudo gli occhi e vedo quegli ombrelloni verticali, fiori che non sbocciano. E poi, in sequenza casuale, vengo travolto da tutto il resto.
Il fuoco. Le ambulanze. I volti disperati. Le espressioni stravolte e indomite dei soccorritori. Il sorriso delle vittime nelle foto che raccoglievamo pietosamente dai loro cari, per comporre il mosaico doloroso che avrebbe conteggiato trentadue lutti. La strage del treno ha distrutto vite e famiglie, ha ferito una città e ha sfregiato molte coscienze. Ha segnato anche me, per sempre. Ero il caposervizio della redazione del Tirreno di Viareggio. Come è stato possibile, quale maledetta e inutile lezione ci è stata impartita, quale giustizia arriverà, come potremo evitare che accada di nuovo, che cosa hanno provato quelle persone in quella notte, come si è osato minimizzare oscenamente su una catastrofe, quanto si è fatto per ricostruire le case e i cuori?
Ecco, penso a domande come queste. I demoni che mi accompagnano. Il calendario ci propone i suoi rintocchi e a ogni 29 giugno arrivo nel piazzale di Largo Risorgimento, ogni volta con la paura che sia troppo vuoto, ma poi lì ritrovo Viareggio e la sua gente, il piazzale è pieno. E mentre i treni passano e fischiano partecipo a quella sofferenza collettiva, notturna. Mi metto da una parte, incapace di percepire lo strazio delle famiglie colpite ma capace, quantomeno, di stringermi attorno a tutte loro.
Dieci anni. Vogliamo coltivare la memoria di quello che accadde. E, grazie alla collaborazione con la Regione, proporla ai nostri lettori con l’intensità del giornalismo: Il Tirreno è un testimone di quel tempo e del presente. Queste pagine sono il tentativo di una conversazione, dolorosa, appassionata, con il passato. Frammenti del giornale che abbiamo fatto dal 2009, contrappuntati dalle riflessioni di oggi. E nessuna pretesa di chiudere un cerchio. Questo cerchio per noi non si può chiudere.
IL DOLORE E LA RAGIONE
di Roberto Bernabò
Come dimenticare quella notte? Da un paio di ore avevo lasciato il giornale e a casa stavo rimettendo in fila i progetti, le visioni, le ambizioni, che avrei voluto mi guidassero dalla mattina dopo nell’assumere la direzione de Il Tirreno. E che avrei presentato a tutti i colleghi, riuniti in assemblea, come vuole la prassi. Sarebbero stati anche il filo conduttore dell’editoriale più importante, quello che sarebbe uscito il 1° luglio, con cui avrei preso l’impegno con la comunità dei lettori sulle linee guida del lavoro di tutti noi.
In un attimo, con una telefonata dalla redazione di Viareggio guidata da Fabrizio Brancoli – che oggi del Tirreno è il direttore – quella notte e il giorno che verrà cambiano totalmente dimensione. Perché quel lampo di fuoco che si porta via decine di vite è una voragine di emozioni. E lo è tanto più perché Viareggio è la città dove sono cresciuto professionalmente, dove per quasi vent’anni ho fatto il giornalista e dove ho imparato, facendone un’ossessione insieme ai tanti compagni di avventura della redazione, di quanto il ruolo del cronista sia importante in una comunità locale.
Così quella notte la rivedo attraverso le telefonate con i colleghi, i loro articoli, il loro immergersi nelle ferite della città. Cercando di tenere insieme, da subito,il dolore straziante di quelle famiglie distrutte e l’ostinata razionalità di cercare un perché. Perché è potuto accadere, chi ne ha la responsabilità, chi non ha fatto il suo dovere. Quella notte spazza via quel po’ di liturgico che gli insediamenti dei direttori hanno – il discorso alla redazione, il primo editoriale, appunto – ed è subito evidente che c’è una sola cosa che dovrò fare nel guidare Il Tirreno: non dimenticare mai le vittime nella strage, stare accanto ai familiari con intensità ma anche profondo rispetto, lottare insieme a loro per la verità.
E una redazione straordinaria che ha forte il valore civile del giornalismo a quell’impegno non è in effetti venuta meno. Durante la mia direzione ma tanto più dopo, mentre il tempo si allungava e la routine rischiava di far perdere intensità alla memoria. Invece un silenzioso ma tenace passaggio di testimone ha tenuto alta la convinzione condivisa che sostenere la ostinata ricerca delle responsabilità avrebbe aiutato a far crescere la cultura del Paese, la cultura delle regole, come auspicavo nell’editoriale di una settimana dopo.
Questa pubblicazione con cui a distanza di dieci anni Il Tirreno continua ad aiutarci a non dimenticare è una prova insomma che anche nel giornalismo – certo spesso pieno di difetti, espressione di una società arrabbiata e superficiale che banalizza e appiattisce i giudizi – faremmo male a non cogliere questi valori. E ritrovarli in quella che è stata per trent’anni la mia famiglia professionale è, mi si conceda, la più bella spinta a continuare ostinatamente a vivere il giornalismo come un servizio.
DIECI VOLTE VENTINOVE
Questi dieci anni sono anche la storia della fatica della memoria. Non solo la nostra città, ma un Paese intero ha smarrito la sua identità e il suo ruolo, e con essi il senso di un destino comune.
di Giampaolo Simi, scrittore
Un semaforo liquefatto. Un casco da motociclista carbonizzato. Un albo di fumetti che spunta dalle macerie. Le bare delle vittime musulmane avvolte nel bianco sotto i pini del giardino dell’ospedale. Il silenzio dei funerali, dove nessun rappresentante dello Stato si presentò con claque al seguito e non una voce, fra ventimila persone, si alzò per invocare giustizia sommaria.
Anche a dieci anni di distanza, è difficile parlare del 29 giugno sgombrando la mente dai ricordi.
E invece bisogna farlo, perché ci sono episodi che accadono nel momento esatto per diventare simboli forti e terribili di un’epoca, per innalzarsi a spartiacque fra un prima e un dopo. Nel 1969 l’omicidio di Ermanno Lavorini e la carneficina mediatica a cui Viareggio fu sottoposta (esempio profetico di fake news virali anche in assenza di internet e social network) apparentemente chiusero l’età dell’oro della swinging Versilia, in realtà la stagione spensierata del boom economico per un Paese intero. Quarant’anni dopo, l’incidente ferroviario del 2009 ha divorato il cuore di una città che con il passare degli anni aveva perso il suo ruolo e quindi la sua identità. E lo ha fatto proprio all’inizio dell’estate, il rito collettivo di cui Viareggio era fra regina indiscussa. Ma ci ha raccontato qualcosa che prescinde da Viareggio, dal luogo in cui l’assile del carro 3380781 210 6 del convoglio 50325 cede di schianto all’usura.
Il 29 giugno 2009 una colonna di fuoco si leva nella notte proprio mentre il mondo occidentale sta facendo i durissimi conti con un’altra esplosione, quella di una gigantesca bolla finanziaria, e con gli sfregi devastanti della globalizzazione sul tessuto sociale di intere comunità. Solo una coincidenza temporale, si potrebbe dire.
E invece la storia di questi dieci anni ci ha mostrato che il processo per la strage ferroviaria del 29 giugno è stato, al di là degli esiti e delle responsabilità personali, anche un processo alla globalizzazione e al modello finanziario spinto come unico paradigma. È stata un’occasione terribile per capire come questo meccanismo funzioni in maniera implacabile e brutale. La performance dei profitti deve salire in continuazione, la concorrenza sui prezzi è spietata, abbattere i costi è sempre il primo imperativo. Si può andare a cercare il risparmio ovunque, anche a migliaia di chilometri di distanza, anche dove non si dovrebbe. Si corre veloci sul binario del rischio, calcolato o meno, tanto l’alternativa non esiste. O meglio: esiste, ma è venir spazzati via dal mercato.
Questi dieci anni sono anche la storia di dieci 29 giugno in corteo, e della fatica della memoria, perché nel frattempo non solo la nostra città, ma un Paese intero ha smarrito la sua identità e il suo ruolo, e con essi il senso di un destino comune.
Dieci anni in cui i familiari delle vittime questo destino comune lo hanno avuto ben chiaro e ce lo hanno indicato a testa alta, lo sguardo in avanti oltre il dolore, senza mai cedere alla rabbia. Li ho ascoltati ribadire testardamente che la loro battaglia è per il futuro, che nessuna condanna sarebbe mai stata di per sé un traguardo e che l’unica vera vittoria sarà un cambio radicale di paradigma: la sicurezza non è un costo, è un valore. Ogni anno da quel palco hanno ricordato che, se la strage ferroviaria di Viareggio ha causato decine di vittime, tutti noi siamo in qualche modo dei superstiti. Perché è folle scommettere sul fatto che non toccherà mai a noi finire fra le perdite inevitabili nella guerra per il profitto. Le trentadue vittime e i molti feriti erano al sicuro dentro le mura di casa o rientravano da una giornata di lavoro. Nessuno di loro immaginava il pericolo che stava sfrecciando a pochi metri dal letto in cui avevano appena addormentato i loro bambini, dalle finestre aperte per il caldo di una notte di prima estate. La maggior parte di loro se n’è andata senza avere neppure il tempo di capire cosa stesse succedendo. A noi tocca capire che la globalizzazione può essere come la Storia della canzone di Francesco De Gregori, quella che “non si ferma davvero davanti a un portone, la Storia entra dentro le nostre stanze e le brucia”.
A meno che la Storia, finalmente, non decidiamo di farla noi, rendendo la notte del 29 giugno quello spartiacque di rinascita di cui Viareggio, e non solo, ha un disperato bisogno.
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LA SICUREZZA
I RUMORI DELL'INFERNO
Un fruscio enorme, un colpo, lo strepito del deragliamento: nel racconto dei ferrovieri la cronaca del disastro
di Donatella Francesconi
«Il manovratore si trovava fuori per “presenziare”, così si dice, al treno in transito. All’altezza del bar si è sentito un colpo». È il 4 luglio 2009: al dopo lavoro ferroviario arrivano ai cronisti le prime parole dei ferrovieri viareggini che ricostruiscono i momenti terribili del deragliamento del treno carico di Gpl – 14 cisterne contenenti 45,7 tonnellate di Gpl ciascuna – e dei primi, concitati, interventi lungo la linea. Cinque anni dopo è Carmine Magliacano, dirigente movimento della stazione di Viareggio nel giugno 2009, a ricostruire – nell’aula del processo di primo grado – quel “colpo” ascoltato la notte che tutto è cambiato.
“Ad un certo punto sentivo proprio un fruscio enorme. Mi sono affacciato alla finestra ed ho visto proprio un polverone ed uno scintillio enorme come sfiammate che venivano sotto il treno e man mano che il treno è passato davanti...Qualcosa di impressionante...Sono scappato dentro per bloccare la circolazione e ad un certo punto ho sentito un altro tipo di rumore...burubum burubum…Un rumore di quel genere è solo un deragliamento”.
Impareremo tutti, nel corso di dieci anni, quanto riassume la sentenza di primo grado emessa dal Collegio del Tribunale di Lucca (presidente Gerardo Boragine, con i colleghi Nidia Genovese e Valeria Marino): “Alla progressiva chilometrica 120+265 il treno sviava con il primo carro cisterna e successivamente con altri quattro carri (…). In particolare, a sviare era un asse del primo carrello del primo carro”. Quell’asse datato 1974 – lo ricostruiranno le puntuali indagini della Procura di Lucca (pm Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino, con il consulente Paolo Toni, la squadra Polfer composta da Massimo Bartoccini, Paolo Cremonesi, Lorena La Spina, Angelo Laurino, i funzionari Asl Riccardo Landozzi ed Alfredo Zallocco) – lascia pochi dubbi all’immaginazione rispetto alle caratteristiche con cui si presentava il punto della frattura (il collarino): “Con sistematiche butterature/rigonfiamenti ed evidenti segni di corrosione sulla portata di calettamento”.
Attimi decisivi, quelli che scorrono tra le mani di Magliacano prima che il cielo sopra i binari si faccia rosso fuoco, e risuonino le esplosioni: “Ho chiuso il segnale. C’era un Intercity che veniva da Roma e gli ho chiuso il segnale e ho avvertito il dirigente centrale telefonicamente di ri-bloccare la circolazione e di non mandare più treni in linea. Ho fatto fermare due treni”. Quando uno dei legali di parte civile chiede a Magliacano se la stazione sia dotata di sistemi antincendio, la risposta è di quelle che rimangono scolpite nella pietra: “Abbiamo gli estintori. Negli uffici ci sono diversi estintori, nell’ufficio dirigente”. E sui binari? “No”.
Da quel deragliamento, dai suoi 32 morti, dall’intera vicenda giudiziaria abbiamo imparato anche la funzione del dispositivo rilevatore di svio. Che l’Europa – dopo oltre 10 anni di confronto tra gli operatori e gli Enti competenti - non ha ritenuto di indicare come obbligatorio, anche solo per quei treni che trasportano merci pericolose, neppure dopo Viareggio e la sentenza di primo grado che è lapidaria nel definire il dispositivo “misura da ritenere con ogni probabilità idonea ad impedire detto deragliamento (e le possibili e prevedibili conseguenze), ovvero a mitigarne gli effetti”. In un quadro complessivo che i due macchinisti di Trenitalia Cargo – Andrea D’Alessandro e Roberto Fochesato – in aula testimonieranno così: “Se non si rompe la condotta dell’aria, e quindi il treno si spezza”, i macchinisti non avvertono “nessun segnale del deragliamento”. Inoltre, nessuna locomotiva ha gli specchietti retrovisori, né telecamere o altri strumenti adatti a vedere quello che avviene dietro durante la percorrenza del treno.
Dieci anni dopo è ancora tutto come quella maledetta notte.
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LAURA, SALVATA DALLO SQUALO
Gravemente ferita, porta i segni delle ustioni ancora oggi. È viva grazie a un intervento miracoloso e a una proteina estratta dal collagene del grande predatore dei mari. “Ho sofferto molto ma quella notte tanti non ce l’hanno fatta. Sono fortunata”
di Chiara Sillicani
Il fuoco le concede una possibilità. Una sola. Entra al numero 5 di via Ponchielli e si porta via tutto. Poi arriva a quell’angolo e, come un ladro che scopre di aver sottratto tutto il bottino, arretra. Arretra davanti alla cornice con il viso di Laura Galli e di suo marito. Il viso di chi si sposa e lancia lo sguardo in avanti. Il fuoco il 29 giugno 2009 a Laura lascia una foto e una sola possibilità. Che lei si gioca tutta. E proprio perché nella cenere quella foto è sopravvissuta, perché nel nulla una possibilità le è stata concessa, Laura, oggi 66enne, il diritto di lamentarsi non lo rivendica: le sue gambe sono segnate, la pelle tira, le ginocchia non riescono a stare piegate, “ma troppi quella notte non ce l’hanno fatta. Io ci sono. Mio figlio si è salvato calandosi dalla canala, mio marito e mia nuora sono rimasti illesi. Mio marito se n’è andato nel 2011 e certo la tragedia del 2009 non gli ha fatto bene, ma alla strage è sopravvissuto. Chi abitava vicino a noi, i volti che vedevamo ogni giorno non ci sono più. Io sono fortunata”.
La consapevolezza e il dolore del ricordo: “Sentirsi in trappola. Il fuoco ovunque, l’odore di gpl. Le braccia di un vigile del fuoco. Poi nulla”. Nulla dell’ospedale Versilia, del trasferimento a Milano, di quel mese all’istituto “Galeazzi”, delle 4 operazioni. Nulla della proteina estratta dal collagene dello squalo che aiuta la pelle ustionata a ricostituirsi. Un tessuto che protegge per oltre 20 giorni il corpo di Laura e favorisce la formazione del sottocute.
Quando arriva al centro milanese è in pericolo di vita: il fuoco ha lasciato ustioni sul 50% del corpo, infierito sulle gambe: i medici temono che Laura non ce la faccia. Ma lei si gioca la sua possibilità e vince: “Mi ha operata e curata - racconta - il dottor Franz Baruffaldi Preis. Mi ha salvata. Ha dimostrato enorme competenza e grande umanità. Se sono viva e conduco una vita quasi normale lo devo a lui”.
È Franz Baruffaldi Preis ad operarla, a far arrivare dall’America, a carico dell’istituto, la pelle sintetica prodotta con la proteina dello squalene. È quella pelle che consente al tessuto necrotizzato di ricostruirsi: “Non ricordo nulla. Ora mi sembra tutto impossibile. Quando mi sono rimessa, mi hanno raccontato degli interventi e dello squalene. Nella mia vita c’è un mese di buio”. E dal buio Laura riemerge. Come una foto salvata dal fuoco. La riabilitazione al Versilia, la vita da ricostruire: “In via Ponchielli stavo bene, lì era la nostra casa. Ho dovuto ricominciare, trasferirmi dai miei, trasformare quell’ambiente in un luogo mio”. Laura sa che ricominciare è stato un privilegio, ma ammette che è stata dura. Difficile, ma ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta a Viareggio: “Non ho mai pensato di andarmene. Viareggio non ha colpa, ha dimostrato grande umanità. Sono viareggina e qui rimango”.
Perché il fuoco si è portato via tutto. Ma ha lasciato una foto.
Una ferita che non si rimargina
L'incrocio dove (per me) tutto è cominciato. E da dove, ogni volta, parte il ricordo di quella notte
di Claudio Vecoli
Ci passo quasi tutti i giorni. Del resto per riprendere mio figlio da scuola è quasi un percorso obbligato. E poi l’incrocio fra via Garibaldi e via Burlamacchi è uno dei crocevia di Viareggio per evitare il traffico dei viali a mare nelle ore di punta. E ogni volta che ci passo, ogni santa volta, la mente ritorna inevitabilmente a quella sera. Già, perché dieci anni non sono ancora un periodo sufficiente per cicatrizzare una ferita come quella del 29 giugno 2009. Forse perché - semplicemente - non esiste un tempo sufficiente per rimarginarla.
Via Garibaldi angolo via Burlamacchi. Se c’è un luogo fisico nei miei ricordi di cronista con cui identifico la strage di Viareggio è proprio quello. Non via Ponchielli, dove arrivai soltanto a notte fonda dopo aver scritto il primo articolo per l’edizione del Tirreno del giorno successivo. Non la stazione ferroviaria, in realtà risparmiata dalla bomba viaggiante di gas propano liquido che sarebbe esplosa poche centinaia di metri più a sud.
Il mio impatto tremendo con il disastro del 29 giugno è stato proprio lì. Dove, carbonizzato nell’esplosione della cisterna di gpl, ho trovato il primo corpo senza vita di quella che sarebbe poi diventata una lunga lista di vittime. E poi le fiamme arrampicate sui muri delle case, i lampioni trasformati in gigantesche torce, la sede della Croce Verde colpita al cuore, le ambulanze custodite nel garage messe quasi tutte fuori uso dallo spostamento d’aria provocato dal boato. Uno scenario apocalittico, che mi ha subito riportato alla mente le scene di guerre lontane fino ad allora viste soltanto in televisione. E che, a dieci anni di distanza, continua ancora a tormentarmi.
Delle trentadue vittime, delle decine di feriti, delle centinaia di sfollati, alcuni erano amici che frequentavo fin da ragazzo, molti erano conoscenti incontrati più o meno di frequente in una città che resta ancora a misura d’uomo, altri erano volti che non avevo mai incrociato. Le loro storie, però, sono entrate nel cuore di ognuno di noi come se tutti fossero i nostri condomini, i nostri compagni di lavoro, i nostri vicini di ombrellone.
Una tragedia che ci ha davvero colpito tutti, lasciandoci addosso graffi profondi e indelebili. Perché quella notte chiunque di noi sarebbe potuto passare da quelle strade in sella al suo scooter trovandosi per caso nel posto sbagliato nel momento sbagliato. O avrebbe potuto attraversare a piedi la passerella sopra i binari per andare al lavoro. O, ancora, poteva venire sorpreso e inghiottito dal fuoco durante una visita ad un amico. E così ogni cosa accaduta ad un altro è come se un po’ fosse successa anche a ciascuno di noi. Per questo non è un esercizio retorico dire che la storia recente di Viareggio si divide in un “prima” e in un “dopo” quel 29 giugno 2009.
C’è poi un retropensiero che chi ha vissuto quella notte non può non aver angosciosamente coltivato almeno una volta. Dai primi soccorritori chiamati ad operare nell’emergenza fino al piccolo esercito di persone che si sono affacciate dal vecchio cavalcavia per assistere alla tragedia che si stava consumando intorno ai binari, tutti abbiamo provato ad immaginare cosa sarebbe potuto succedere se quella grande bombola prima squarciata e poi esplosa avesse fatto da innesco anche alle altre cisterne avvolte per ore dalle fiamme e dal calore. Ed è per questo che, ogni volta che passo dall’incrocio fra via Garibaldi e via Burlamacchi, un brivido mi corre lungo la schiena.