PISA. “Non si preoccupi dottore, Pisa è una città tranquilla, può dormire sereno”. «Ero appena arrivato in città, fresco di nomina a pubblico ministero. E, vedendomi giovane e ancora non ben consapevole del contesto in cui mi trovavo, il personale del tribunale cercò di rassicurarmi. Passarono sì e no due o tre giorni e, di sera, tardi, squillò il telefono di casa; era uno dei miei collaboratori: due banditi a caccia di soldi facili per acquistare droga avevano ucciso la “maschera” del cinema Ariston. Un tentativo di rapina finito nel sangue che ebbe grande risalto sui giornali dell’epoca. Ecco, potrei dire che è iniziato tutto così».
Il “tutto” di cui parla Angelo Perrone, 70 anni ben portati, sguardo attento ai particolari ed eloquio affilato, è una lunga e onorevolissima carriera che, attraverso quattro decenni spesi tra magistratura inquirente e giudicante lo ha trasformato in un pisano d’adozione (tarantino di nascita, ha poi abitato a Roma, dove si è laureato in Diritto amministrativo) oltre che in un testimone “privilegiato”, super partes, di centinaia di casi giudiziari legati a fatti di cronaca, episodi di piccola e grande criminalità, tensioni sociali, terrorismo, sequestri di persona. «Ce ne sarebbero, di cose da ricordare - racconta l’ex magistrato durante una conversazione al tavolino d’un bar di Borgo Stretto - Ma rischieremmo di fare solo un elenco, forse anche noioso, in chiave amarcord». In magistratura dal 1975, a Pisa da due anni più tardi, ha lavorato nella città della Torre fino al 2010, alternando le funzioni di pubblico ministero a quella di giudice, per poi spostarsi negli uffici giudiziari di Pontedera, e successivamente, dopo un nuovo periodo di alcuni mesi a Pisa, dal 2014 al 2017, anno in cui ha deciso di lasciare la magistratura, al tribunale di Livorno. «È stata una scelta ponderata, non legata a “stanchezza”, delusioni o a eventuali motivi di risentimento contro chicchessia; semplicemente ho preso atto che era arrivato il momento di staccare e seguire le mie passioni, prima tra tutte la scrittura; di occuparmi ancora di temi giudiziari, ma in modo distaccato, saltuario».

Quindi, adesso siamo colleghi?
«In un certo senso, sì. Scrivo testi giuridici e curo dei corsi di formazione; ma anche note e racconti, prendendo spunto dall’attualità o da ricordi che appartengono all’immaginario personale e collettivo. Scrivere è un pensiero felice della giornata. Collaboro con un quotidiano online statunitense che si chiama “La voce di New York”, che ha un sottotitolo bellissimo: “La libertà incontra la bellezza”. Si rivolge a tutti i lettori italiani nel mondo e a chi nella lingua e nella cultura italiana ha trovato una passione di vita. Poi ho il blog “Pagine letterarie”, uno spazio aperto anche ad altri in cui mi piace trattare temi giuridici e vari argomenti, dall’arte alle cose più disparate, dando seguito a idee e suggestioni».
Tornando alla sua carriera, lei ha vissuto anche gli anni del terrorismo. Che ricordi ha?
«È stato un periodo “pesante”, quello a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Da pm ho sostenuto l’accusa in processi contro esponenti dell’estrema destra, su tutti Mario Tuti, accusato, e poi assolto, di essere il mandante ideale di vari episodi criminali riconducibili al terrorismo “nero” in loco. E, da giudice, ho pronunciato sentenze, in un tribunale con un clima molto “elettrico”, a carico di estremisti di sinistra delle Cor, le Cellule di offensiva rivoluzionaria».
Mai ricevuto minacce?
«Sì, nel periodo del processo agli estremisti di destra, per qualche tempo mi venne anche assegnata una scorta. Le minacce per chi fa il magistrato, purtroppo sono da mettere in conto».
Il caso, da rappresentante dell’accusa, che ricorda con maggior soddisfazione?
«Mah... senza dubbio il primo, quello a cui ho accennato all’inizio: in un paio di giorni riuscimmo a individuare e arrestare gli assassini della “maschera” dell’Ariston. Ma, sul piano delle modalità investigative, rapportate a più di trent’anni fa, ricordo anche la veloce soluzione d’un altro omicidio, avvenuto nella zona della Costanza. La vittima fu uccisa con un punteruolo. La carta vincente, nel corso dell’indagine, fu il rinvenimento di frammenti di vetro nel manico dell’arma del delitto. Scoprimmo così che quei frammenti erano parti residue di oggetti in vetro usati nell’officina dell’indagato. Vennero svolte perizie e accertamenti molto approfonditi. E dopo un’assoluzione in primo grado l’uomo accusato dell’omicidio - per motivi economici - fu condannato sia in Assise d’appello che in Cassazione»
Facendo un salto all’oggi: perché non si riescono ad accorciare i tempi della giustizia?
«Il discorso è complesso. Diciamo che da parte della politica, tutta, non sembra esserci una forte volontà d’intervenire per risolvere questo problema. Temi come prescrizione e impugnazione sono centrali. Servirebbe uno sforzo deciso da parte di tutte le parti in causa, magistratura compresa. Ma legate a questo argomento ci sono anche altre riflessioni, sui mezzi a disposizione della giudici, sugli sprechi, sull’inadeguatezza dei controlli verso le misure cautelari alternative. Faccio un esempio: che senso ha impiegare personale delle forze dell’ordine per verificare che qualcuno rispetti davvero gli arresti domiciliari o il divieto di avvicinarsi a una persona da lui o lei minacciata/o stalkerizzata/o? Basterebbe un braccialetto elettronico, ma in Italia è raro che se ne faccia uso; con quello che ne consegue sia in termini di costi che di disponibilità di persone impiegabili in altro modo».
Lei ormai è pisano a tutti gli effetti. Vive qui da quarant’anni. Cosa si sente di rispondere, se le va, a chi dice che la città è peggiorata, più degradata, meno sicura, rispetto a un tempo?
«Rispondo che una cosa sono le sensazioni percepite, e altro i fatti reali. Certo, anch’io vedo situazioni diverse, rispetto ad anni addietro. Non me la sento però di addebitare colpe specifiche. Non è un problema solo di ordine pubblico, ma più ampio, che attiene a scelte amministrative protrattesi nel tempo e a comportamenti più o meno consequenziali. Ripeto: un conto sono la sporcizia, i rifiuti; un altro i reati. Sarebbe sbagliato confondere i problemi della movida in piazza delle Vettovaglie con la criminalità. Diciamo che si tende a esaltare il fatto di cronaca, lanciando allarmi che alimentano il senso d’insicurezza e non si dà risalto a quanto di buono viene invece fatto, per la tutela dei cittadini. Fa rumore l’albero che cade, ma c’è una foresta che sta ben in piedi, e di rumore non ne fa».
Per chiudere, qualche curiosità spicciola. Cosa si prova, da giudice, quando capita di dover assolvere una persona che a pelle è enormemente sgradevole o antipatica? Le sarà capitato…
«Certo (sorride, ndr). Ma non si prova nulla di particolare. Non è che la giustizia può andar dietro a simpatie o antipatie. Piuttosto le racconto che mi è capitato di avere dei tormenti interiori; di partire con delle forti convinzioni colpevoliste, o viceversa, e poi di cambiare radicalmente idea, talvolta nel confronto con gli altri membri della giuria, togata e popolare, ma anche in modo del tutto autonomo».
Se potesse tornare all’epoca della sua laurea, rifarebbe lo stesso percorso, farebbe ancora il magistrato?
«Assolutamente sì. Ho amato e amo tuttora la mia professione».
E se per qualche motivo non le fosse possibile, in che altro ambito si vedrebbe?
«Sì… forse sarei un suo collega. O uno psicologo. O un filosofo». —