PONTEDERA. Uno, due. Un tasto, una leva su una consolle di comandi elettronici. I tiranti che si abbassano, le paratoie si sollevano. Se non fosse per quella lastra marrone, quel groviglio di fango e tronchi che scorre verso il mare, Maurizio e Giovanni sembrerebbero i registi di un grande acquapark. In fondo, lungo gli argini, domenica si sono assiepati un sacco di curiosi. Con i telefonini riprendevano l’Arno che aveva cambiato strada, che rimbombava di spruzzi in fondo alle cascate artificiali. Se non fosse che qui scorre tutto ogni volta sul filo dei centimetri e «tutto deve essere calcolato in ogni minimo dettaglio», dice Giovanni Massini, direttore della Difesa del suolo e della Protezione civile toscana, questi due uomini in pettorina arancione che camminano sul ponte della diga sembrerebbero gli artefici di un gioco d’acqua. Anche se è un gioco da 550 metri cubi al secondo e serve a «domare la bestia».
Perché Maurizio Curci e Giovanni Marchese sono i sorveglianti idraulici dello Scolmatore di Pontedera, uomini del Genio civile, e da domenica anche i tecnici che hanno salvato Pisa dalla piena. I guardiani dell’Arno. Sono stati loro ad aprire le barriere e a far defluire un po’ di forza del fiume verso il canale artificiale costruito più di trent’anni fa ma entrato in funzione solo da una ventina. Una ferita nella terra alta un metro che corre per chilometri verso il mare fino a Calambrone. Un fosso scavato per deviare il corso del fiume più importante della Toscana. Il bivio dello Scolmatore è su un’ansa che sfiora la città della Piaggio. L’ultima volta l’hanno attivato nel 2014, ma il fiume non era lo stesso. Due giorni fa - avevano avvertito i meteorologi - c’erano condizioni simili a quelle del 1966. L’anno dell’alluvione.
«Lo Scolmatore è stato progettato per aprirsi in automatico, quando la portata raggiunge un certo livello – spiega Massini – I bilancieri non reggono la spinta e sollevano le barriere». Ma domenica attendere sarebbe stato un rischio. L’Arno ruggisce. A Firenze, intorno alle 13, passa dagli Uffizi con una portata di 2148 metri cubi al secondo, pochi chilometri più giù, a Signa, gli idrometri ne registrano 2028. In diminuzione, ma non abbastanza. Non può bastare certo da sola la cassa di espansione a San Miniato. Pisa vive col fiato sospeso. L’esondazione è uno spettro concreto, atteso nella notte. Se il fiume arrivasse così, le paratie montate alle spallette sui lungarni dai parà verrebbero travolte. «Alle 15.30 aveva raggiunto 6 metri e 84, 34 centimetri oltre il massimo livello di allerta. Abbiamo dovuto prendere una decisione». Non un banale automatismo. «Il sollevamento va calibrato: aprire le porte all’Arno in fretta avrebbe potuto solo deviare un’alluvione da una zona all’altra». Salvare Pisa, ma sacrificare la Valdera. Anche perché, per ora, se lo Scolmatore riesce a placare i ruggiti dell’Arno, non può addomesticarli. Progettato per assorbire 1400 metri cubi al secondo, riesce a scaricarne solo 700. Dopo 10 milioni spesi per “armare” la foce, ne serviranno 14 per rinforzarlo e alzare gli argini.
L’Arno fa ancora paura. Firenze ha scoperto ieri la ferita più grande lasciata da un passaggio che sembrava averla risparmiata: una voragine nascosta sotto il lungarno Diaz, a un passo da Ponte Vecchio, simile a quella che la sfregiò nel 2016. Il fiume ha scavato come un bruco per mesi. L’hanno scoperta i vigili del fuoco per caso, arrivati per una fuga di gas. Ma tutta la Toscana conta i danni. In stato di emergenza, il maltempo l’ha privata di uno dei suoi gioielli naturali. Una tromba d’aria ha abbattuto mille pini alla Feniglia, la spiaggia simbolo dell’Argentario.