
C’è stato un momento del pontificato in cui papa Francesco ha fatto vacillare l’opinione pubblica, compresa quella storicamente più aperta all’accoglienza. Fu a giugno 2014, quando si schierò dalla parte degli zingari: «Quando a Roma prendevo l’autobus, bastava che salissero perché l’autista gridasse di stare attenti al portafogli. Questo è disprezzo». I giornali di destra ci ricamarono sopra, quelli di sinistra non insistettero troppo: il gesuita argentino aveva toccato una ferita aperta nella società italiana.
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Proprio ieri sera, a poche ore dell’omicidio terribile di Centocelle, la famiglia delle vittime ha ricevuto la visita di un monsignore polacco che nelle periferie romane conoscono come don Corrado: era Konrad Krajewski, l’elemosiniere pontificio, incaricato di portare il saluto del Papa e un aiuto concreto. Con lui c’era la comunità di Sant’Egidio, che accanto a rom e sinti lavora da una vita: l’avanguardia di un mondo cattolico che invece sulla questione resta piuttosto diviso e che considera i nomadi un problema irrisolvibile. Come del resto, va detto, buona parte dell’elettorato.
Gli zingari rappresentano il popolo più odiato d’Italia e d’Europa, nonostante siano la più grande minoranza nel continente. Da noi se ne contano circa 150mila, per metà cittadini italiani di antico insediamento. Eppure rappresentano l’alterità in assoluto: quelli per cui, anche di fronte alle tragedie peggiori, c’è sempre chi non sa resistere alla tentazione di un distinguo.
Il rimedio è noto a tutti e si chiama integrazione. Nel 2012 il governo Monti - non a caso un governo tecnico, ancora senza affanni elettorali - affrontò la questione a livello interministeriale e adottò una “Strategia nazionale per l’inclusione di rom, sinti e caminanti” con un orizzonte di 8 anni; al giro di boa, l’anno scorso, le associazioni impegnate sul campo ne hanno quasi decretato il fallimento, perché nel frattempo nessuno si è preso la briga di metterla in pratica. Si baserebbe su quattro pilastri (inserimento abitativo, lavoro, scuola e salute) e non costerebbe nulla, perché verrebbe finanziata dai vari fondi europei sull’integrazione. Ma il solo lavorarci, appunto, richiederebbe coraggio: il coraggio di sfidare le critiche, inevitabili, di chi rimprovererebbe governi e maggioranze di «pensare agli zingari anziché alle persone perbene».
Eppure qualche amministrazione è riuscita a migliorare le cose. Si pensi ai progetti di inserimento abitativo a Torino e Genova, che hanno portato alla chiusura di quasi tutti i campi, e a quello di Alghero. Anche sulla scolarizzazione ci sono tentativi illuminati, ma al momento anche le idee migliori vengono attuate solo a livello di programma pilota e non portate avanti in maniera generalizzata. Resta invece il buco nell’acqua, per ora, nel contrasto alla devianza, strettamente legata alla marginalità; anche se qualcuno preferisce farne una questione etnica e dire che “i rom rubano per natura”, come del resto nel secolo scorso i romani dicevano che gli abitanti della Garbatella fossero “ladri alla nascita”.
Proprio a Roma, nello specifico, i sindaci che si sono succeduti negli ultimi 25 anni hanno cercato soluzioni in modo diverso. Rutelli mise in piedi i primi campi autorizzati, con l’idea che fosse il male minore rispetto a strade e baracche, ma quella nata come una soluzione ponte si trasformò, col passare del tempo, in un campeggio a vita. Veltroni stava pensando a soluzioni diverse, ma l’allargamento dell’Unione europea e l’arrivo massiccio di rom rumeni gli scombussolò i piani. Alemanno chiuse alcuni campi, come il Casilino 900, ingrandendo però a dismisura gli altri già esistenti e rendendoli ancora meno vivibili. Marino non ebbe nemmeno il tempo di fare qualcosa. La Raggi, infine, afferma di aver preparato un piano, che verrà presentato a breve: chi lo ha visto lo definisce ragionevole, ma difficilmente applicabile. E il rischio concreto è che tra dieci anni non sarà cambiato nulla.
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